Il coltello a lama mobile fu sempre arma popolare: a causa dell’ingombro limitato e del costo ridotto, e a causa delle discriminazioni sociali o legali che riservavano il porto della armi bianche lunghe ai soli nobili. Il “fenomeno” divenne macroscopico quando le autorità decisero, invocando ragioni di pubblica sicurezza, che il popolo non potesse portare armi. Ma, nel caso dei coltelli, divenne arduo stabilire il limite oltre il quale cessavano di essere utensili e diventavano armi, né dall’altra parte il popolo poteva rinunciare, oltre che a un utensile di indubbia utilità, a un’arma da difesa cui si era ormai abituato. Ne seguì una lunga diatriba che vide l’autorità impegnata a proibire le lame eccedenti una certa lunghezza e il popolo industriarsi per forgiare lame sempre più corte, ma di fogge all’occorrenza estremamente pericolose. Come quelle a foglia di salvia, veri pugnali larghi e a doppio taglio, o quelle a foglia di olivo, strette e molto acuminate. Un tipico esempio fu il coltello “alla genovese” che ebbe larga diffusione nell’Italia del XVII secolo e che in pratica riprendeva la spada “alla frantopino” bandita in numerosi Paesi d’Europa per l’insidiosità. Il coltello aveva un’impugnatura in legno o corno e una lama larga al tallone, che si assottigliava decisamente nel debole a formare uno stiletto a quattro facce con punta acutissima. Venne bandito anch’esso, ma poi riprese forma con una cruna che attraversava la punta e destinazione d’uso – ufficiale – di strumento da sellaio. Poteva perciò essere portato da chiunque dal momento che il cavallo era l’abituale mezzo di locomozione. In Italia i centri di produzione di coltelli, soprattutto a lama mobile, a causa della frammentazione politica del Paese e anche della scarsa circolazione dei prodotti, furono numerosi e ognuno creò proprie tipologie. La ricchezza di forme “italiane” non trova riscontro in altri Paesi europei, sia per il coltello con caratteristiche offensive sia per quello inteso come strumento di uso quotidiano. La scherma di daga e stiletto, insegnata dai maestri d’armi nel periodo che andava dal XIV secolo all’XIX, nel XVII secolo condizionò la creazione di metodi di maneggio che poi si svilupparono in un’arte raffinata ed efficace, continuando poi a evolversi nei miglioramenti sino ai primi decenni del XX secolo. Le regioni del nord Italia, in parte quelle centrali, alcune meridionali e insulari, erano prive di maestri, ma esistevano persone che possedevano solo la conoscenza di poche, definitive, azioni tecniche. L’apprendimento di tali tecniche era detenuto sia dalla malavita, sia dalla normale popolazione. Lo sviluppo di una vera arte di maneggio del coltello si verificò invece in sei regioni: Lazio, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Corsica. Nelle scuole (ovviamente clandestine) dove s’insegnava ad adoperare il coltello, si seguiva un preciso metodo diverso da regione a regione. Spesso poi gli allievi elaboravano nuove interpretazioni delle azioni tecniche che differivano da quelle dei maestri e capiscuola. Accadeva così che in una stessa città o cittadina, oltre a uno o due metodi principali, ve ne potevano essere altri “contaminati”. Il ritardo, rispetto a vari altri Paesi europei, nel passaggio all’industrializzazione (o almeno a una produzione semi-industriale) nel settore della coltelleria, ha consentito una più lunga sopravvivenza di tipologie legate alla fabbricazione artigianale. I centri di produzione ancora attivi sono Maniago (Pn), sicuramente il più fertile oggi (ma quasi privo di connotazioni tradizionali), nato intorno al 1400, Premana (Co), specializzato soprattutto nelle forbici, Scarperia (Fi), che risale al 1400 fin da principio con la coltelleria, i cosiddetti “ferri taglienti”, Campobasso e Frosolone (Is), anch’essi molto antichi, Pattada (Ss), molto più recente (fine XIX secolo)